Sono passati anni, non li conto, quando un mattino il custode mi consegnò un plico. Che sarà pensai non avevo ordinato nulla. Lo apersi solo nel pomeriggio. Di solito sono più curiosa, ma in quel caso qualcosa mi frenò. Il pacco mi era stato inviato da una mia cara amica…..e conteneva dei fogli pinzati tra loro e scritti a mano. Erano i ricordi, frammentati di una vita, la sua, e lei me li consegnava perché ne facessi l’uso che più ritenevo opportuno. Che dire. Mi sono commossa allora, e mi commuovo ora che ho pensato di pubblicarli sul mio blog. Lo faccio per Anna, questo il nome della mia amica, e per mantenere viva la sua memoria. Sono certa che a lei avrebbe fatto piacere.
FRAMMENTI
MACEDONIA
Ia parte
La osservavo standomene nascosta dietro alla madia, il mobile più rassicurante della grande cucina.
Lei sapeva della mia presenza, ma presa dalle sue ricette, o forse perché amava stare al gioco, fingeva che io non ci fossi, mentre davanti a lei, in un tripudio di colori i frutti di stagione aspettavano di essere tagliati.
Mia madre era una specialista delle mille ricette di macedonia che preparava da quando era ragazza.
Probabilmente questa passione nasceva dal fatto che le sarebbe piaciuto dipingere su tela, adoperando gli acquarelli e immergendo i pennelli nella pasta dei colori appariscenti. Ma date le circostanze, non sempre favorevoli, aveva rinunciato a cimentarsi come pittrice, e per far fronte alle esigenze della creatività esplosiva di cui era fornita, si era buttata sulla macedonia con tutta la passione della sua indole sanguigna.
Era bello guardare le sue mani corte, larghe, rosa e carnose con polpastrelli quadri,che nonostante la robustezza delle forme, sapevano ghermire con delicatezza il frutto di stagione, per poi appoggiarlo su di un taglierino di legno vecchio, e con la lama affilata del coltellaccio, ne facevano fettine tagliate tutte, con perfezione maniacale della stessa identica misura.
Al taglio, l’aroma si spandeva per la stanza, e io sognavo la succosa macedonia che avrei mangiato anche il giorno dopo.
Durante tale rito, mia madre sollevava di tanto in tanto il capo, e ormai dimentica della mia presenza chiedeva agli elfi, esseri invisibili che lei era certa avessero scelto la nostra abitazione come dimora stabile, conferma e approvazione sulla ricetta e gli ingredienti.
Tutto ciò avveniva ogni lunedì, tanto che ormai eravamo soliti chiamarlo “Il giorno della macedonia” e che, da quel che posso ricordare era un rito cui non ho mai mancato, sino a quando a causa del mio ingresso a scuola, non dovetti rinunciare.
“Il lunedì della macedonia” era un giorno di festa per me, perché oltre ad amare l’esibizione di bravura da parte di mia madre, a differenza della maggior parte dei bambini, a me la frutta piaceva molto, e nascosta nell’angolo aspettavo la fine dei lavori, per accostarmi alla tavola e spolverare gli avanzi, pezzetti di pera e mela, o di banana scartati perché ritenuti deformi.
Inoltre secondo le ricette e delle stagioni finivo per gustare i fondi di bicchiere, dove era rimasto un dito di maraschino o di succo di mirto, quel di più che secondo l’artista avrebbe rovinato il sapore dell’insieme.
Per tutto il tempo che richiedeva la preparazione a mio padre era vietato disturbare.
Sapevamo però che nella stanza accanto lui era preso da una delle sue nuove invenzioni geniali ma incomprese.
Era riuscito a ideare un blocca freni da bici, un rompi unghie contro i ladri, sempre di bici, una calamita cerca oggetti smarriti, un porta monete antirisparmio (mio padre odiava l’idea del risparmio), e non so quante altre diavolerie, il cui brevetto mai nessuno comprò.
Questi sono nel mio ricordo i giorni più belli, in cui, appagata in tutti i miei sensi, il gusto, la vista l’olfatto, il tatto e l’udito, – pensavo che la vita aveva tutta la mia approvazione.
In quella cucina, con mia madre, mio padre, la macedonia e gli elfi mi sentivo al sicuro, chiusa la porta sul mondo, avevo il pieno controllo delle mie emozioni che tenevo custodite gelosamente in un ripostiglio segreto della mia anima.
Mia madre conosceva migliaia di ricette per la macedonia, di cui però la base restava circa sempre la stessa. Al primo posto, le immancabili mele, cui si aggiungevano di volta in volta gli altri frutti di stagione che potevano essere acini d’uva bianca e nera banana, mandarini fette d’ananas o d’arancia.
Una delle mie preferite era la macedonia al brandy. Sbucciata e pulita la frutta, pelati gli spicchi di mandarino e d’arancia, tagliate la mela, le banane e l’ananas a cubetti, e gli acini d’uva in due, mamma metteva tutti gli ingredienti così preparati in una coppa di vetro.
Intanto la casseruola riempita d’acqua zuccherata e messa sul fuoco, arrivava ad ebollizione e allora mamma vi versava un bicchiere di pricot brandy oppure di champagne secco, e poi versava il tutto sulla frutta cui aggiungeva qualche mandorla pelata.
Osservandola, devo dire che iniziai ad imparare molte cose, una filosofia semplice, fatta di gesti e silenzi. Come ad esempio il fatto che mia madre aggiungesse o togliesse ogni volta alle ricette un ingrediente, facendo sì che non fossero mai simili l’uno all’altro, mi fece capire quanto la creatività applicata nel quotidiano potesse mettere in fuga la monotonia legata alla ripetizione. Un’altra lezione fu quella dell’amalgama degli ingredienti. Scegliendo le dosi e gli ingredienti affini si poteva dar risalto al sapore, mettendo insieme invece gusti troppo contrastanti si finiva per far cilecca.
Imparai ad applicare tutte queste piccole lezioni e a farne un dossier finendo col dedurne che la vita non era altro che una macedonia, di cui le persone erano la frutta e gli avvenimenti, i liquori o i succhi di frutta con cui condirla. L’amore melenso era lo zucchero filato, l’amore sano, il maraschino, il limone rappresentava, a seconda del suo grado di maturazione, gli episodi sgradevoli o gli episodi maliziosi della vita.
Il gioco mi divertì a tal punto che presi a scrivere, e ad attribuire ad ognuna delle persone che conoscevo il nome di un frutto. Mia madre ad esempio era una mela renetta, modesta e non pretenziosa, ma buona e capace di amalgamarsi con tutto. Mio padre era un ananas, un frutto altero e aristocratico, ricco di sfaccettature, c’era una zia che non sopportavo che era finita per assumere le sembianze di un fico d’India.
1949
Sono nata alla fine degli anni 40.
Non me ne ha mai parlato espressamente ma da alcune dichiarazioni fattemi, frasi colte un po’ qua e un po’ la, ho capito che per Marcellina, mia madre, il periodo della gravidanza è stato il più ricco d’emozioni e denso di vita. Non fu una presa di coscienza razionale, non era nella sua natura divenire consapevole attraverso formule astratte di ragionamento, la gravidanza era nell’ordine naturale delle cose, era la vita cui sarebbe seguita la morte, era la notte che chiudeva la parentesi del giorno, ma per lei ancora così giovane e già rassegnata ad un destino di sudditanza al colore grigio, la gravidanza segnò un punto a suo favore.
Si sentì finalmente viva, importante, aveva uno scopo. Sinora non era stata che una barca senza timone, in balia delle correnti avverse, ora invece con la forza delle sue giovani braccia e con gli strumenti che aveva a disposizione cercò una direzione, e prese a fendere il tempo con i suoi remi, ma adagio, era sempre comunque meglio seguire la corrente.
Fu un bel periodo sotto, tutti i punti di vista, Marcellina stava benissimo, mai un rigurgito, una nausea, un qualsiasi fastidio, e penso che ciò fosse dovuto alla piena accettazione della mia presenza.
Papà viveva di riflesso questo suo stato, poiché non credo si siano mai lasciati andare a carezze sul ventre che andava gonfiandosi, o ausculto del feto.
Marcellina trascorse tutti i nove mesi con me, permettendo solo agli elfi di ascoltare le sue perplessità. Suppongo che anche a lei a volte sia capitato di chiedersi come sarebbe stata la vita dopo, non per paura di perdere la libertà che non aveva, ma comunque questa nuova presenza avrebbe portato novità e magari confusione.
Agli elfi chiese consiglio su cosa fare con me, a volte le venivano in mente cose strane, arrivò persino a preoccuparsi del proprio aspetto, voleva essere bella per il nuovo arrivato. Diede ascolto soprattutto all’intuizione, che le suggerì in parte ciò che era meglio fare.
Sono certa che la passione per la frutta mi sia stata instillata in quel periodo, quando nel suo grembo sono stata investita dagli aromi dei frutti di bosco, i pompelmi rosati, le pesche noce o le susine adagiate nella fruttiera su di uno strato di noci e arachidi. Gli spicchi d’arancia, tagliati tutti uguali e serviti su di un piatto, a mio padre che non si negava mai questo piacere. Il profumo di queste delizie che mia madre non aveva perso l’abitudine di preparare, filtrava attraverso le sue nari e colpivano le mie cellule celebrali che andavano formandosi.
Presa com’era da tutto ciò, Marcellina non si accorse del tempo che passava, i nove mesi erano quasi giunti alla fine. Intanto anche qualcosa nel volto d’Italia andava trasformandosi. Al di là delle nostre quattro mura c’era un tumulto, stava iniziando la fine del potere delle sinistre, costrette da una serie di eventi a mettersi da parte per lasciare posto ad un governo di centro. Era l’Italia della Prima Repubblica, era il periodo della guerra fredda, comunismo e capitalismo si contendevano le simpatie del mondo. La sinistra passava all’opposizione mentre i democristiani andavano al governo, le donne avevano votato per la prima volta. Dalle campagne tre milioni di contadini si riversavano al nord, sul triangolo industriale lasciando le case e le terre abbandonate in balia della miseria.
Tutto ciò avveniva fuori dalla nostra porta di casa, mentre noi illudendoci di essere al sicuro, ci consideravamo un mondo a parte. Mia madre ebbe la capacità o la cecità di non accorgersi di nulla.
La casa di via San Marco
La casa fatiscente aveva scale di legno buie e maleodoranti, giacché sui pianerottoli degli ammezzati con l’impiantito sconnesso si aprivano le porticine dei bagni che erano in condivisione.
Abitavamo al primo piano a cui si arrivava salendo una scala dai gradini in cemento. Il contrasto tra lo sporco dei muri, il nero della bocca fatiscente del vano comune e la porta verde che si apriva sulla nostra cucina bianchissima e grandissima era violento.
Nella luce intensa e abbagliante, la cucina, il centro sociale della casa, era un’apparizione magica. La povertà del battuto di cemento e delle piastrelle di gres tipiche dei locali di servizio scompariva di fronte all’isola scintillante della cucina, ricca degli acciai del piano cottura, il forno, la cappa e il lavello in marmo. Era costata una fortuna. Il resto della casa, i pochi arredi e oggetti dell’ambiente, erano stati raccolti da Marcellina, nei negozi dei rigattieri e da alcuni parenti compiacenti.
In una cucina così grande c’era posto per tutti, e per tutti c’era la possibilità di scegliersi il punto di riferimento preferito.
Talvolta la famiglia pugliese che abitava sul nostro stesso piano portava i nuovi arrivati o gli amici a vedere l’appartamento. Come in visita al museo delle meraviglie, guardavano stralunati la casa, girando attorno all’isola di cottura con i suoi bagliori lucenti, quasi fosse un’astronave caduta li per caso. Ed era un mare di esclamazioni estasiate.
A volte, seduti in cucina a finestre spalancate, ci facevamo cullare dalla notte e dai i riflessi della luna sui vetri delle finestre di fronte. Il suono delle parole e delle musiche dei vicini ci giungeva attutito, come un eco lontano. Si parlava, si beveva, qualcuno fumava. Il caffè nella moka sempre pronta sul fuoco scioglieva l’atmosfera dando il benvenuto alla sera che si sperava non finisse mai.
Oggi la casa è stata ristrutturata, il quartiere si è rivalutato, i prezzi e la gente sono cambiati.
Né io né i quattro ragazzi pugliesi ci abitiamo più. Sono scomparsi il suono della musica, e l’odore di cipolla che annunciava un sugo alla meridionale ricco di spezie e basilico. Solo le nuvole sono rimaste uguali e nei giorni di vento forte percorrono lo stesso cielo.
Non so chi, ma di certo qualcuno, come abbiamo fatto noi in altro tempo, le guarda oggi, dalle stesse finestre
rese nobili dai doppi vetri, e così, come facevamo noi, si chiede, dove stanno correndo.
Nell’‘appartamento di via San Marco c’era un mondo a parte, cui le notizie arrivavano attraverso il racconto del vicinato. Che qualcosa stesse cambiando nella società a Marcellina lo disse l’arrivo sul nostro stesso pianerottolo di una famiglia di meridionali, padre, madre e quattro figli, e il loro affidarsi a lei in cerca di sollievo e comprensione. Grazie alla loro modestia lei li ebbe in simpatia soprattutto i ragazzi dagli occhi affamati. Per loro la nostra cucina era un luogo magico, un prodigio di lusso e modernità. Tutto ciò che avevano sognato quando lasciata la Puglia, erano partiti per Milano con una valigia e tante speranze, ora l’avevano trovato da noi.
Il primo ad arrivare era stato il padre, sradicato dalle campagne a causa della miseria.
Prima di trovare lavoro in una fabbrica di colori si era dovuto adattare a tutto, sempre lavori precari, sottopagati. Del resto non avendo una specializzazione, si era rassegnato allo sfruttamento pur di poter mandare a casa qualcosa. Come lui ce n’erano migliaia d’altri nelle stesse condizioni. Prima di trovare la casa aveva dormito anche in un dormitorio pubblico. Impossibile trovare alloggi, e per i meridionali era ancora più difficile. Eppure erano loro ad averne bisogno. Ma Salvo non perse mai la speranza, era un uomo semplice e forte, inoltre aveva cinque bocche da sfamare, cinque anime che credevano in lui. Finalmente la ruota girò a suo favore, dapprima il lavoro in fabbrica, in mezzo alle vernici, agli odori acidi e forti, esalazioni che avrebbero lasciato traccia nei suoi polmoni. Poi la casa di via San Marco. Un unico stanzone che grazie a una tenda sarebbe stato diviso nel reparto giorno e notte. Uno per volta arrivarono i quattro figli per ultima la moglie con il più piccolo. Erano persone piene di dignità e di riconoscenza. Attraverso i loro racconti nella nostra casa entrava un mondo che non ci piaceva per niente.
Preferisco dire di essere nata all’inizio degli anni ’50, mi fa sentire più giovane.
Pare che i primi tre anni di vita sono i più importanti per la formazione della personalità, ci credo, però c’è una cosa che mi sfugge, ed è il fatto che io di quei primi anni non ricordo nulla. Se davvero sono stati così incisivi, mi piacerebbe poterli ogni tanto rivivere o poterli considerare come un patrimonio accessibile alla memoria. Invece devo accontentarmi dei piccoli aneddoti che ogni tanto Marcellina si degnava di raccontarmi, o della strada a ritroso percorsa con il mio analista, andando un po’ a tentoni e fidandomi del suo intuito.
So di essere nata in un normale ospedale, davanti al quale ogni tanto passo. Una volta, presa dalla nostalgia, ci sono entrata, non so come fosse allora, ma la vista dei lunghi corridoi dal pavimento di marmo maculato mi ha investito di una tale tristezza che sono scappata sul viale antistante e ho preso il primo autobus che passava.
Marcellina – Riflessioni su mia madre
Ho immaginato Marcellina abbandonata al suo destino in un lettino stretto, con le infermiere che le passano accanto annoiate, (il trattamento riservato ai non paganti) pregando che anche questa puerpera si sbrighi a far nascere un altro infelice.
I dolori che si fanno sempre più vicini le annunciano che me la sto cavando bene, fra poco aprirò gli occhi su questo mondo, mi piacerebbe tanto poter immaginare quale sia stata la mia impressione.
Il primo sguardo sul mondo, grandioso! Questi geni della tecnica dovrebbero saper inventare un apparecchio che attraverso le cellule nervose della madre entri in contatto con il nascituro e riesca a fotografare l’immagine che appare ai suoi occhi quando uscito dal tunnel oscuro li spalanca sulla sala parto. Sono certa che quel primo shock c’imprime un fardello che ci porterà in groppa per tutta la vita, la paura delle novità, la diffidenza verso gli estranei, il rifiuto dei camici e tante altre cose.
Marcellina, non emise un grido, tanto che le infermiere se la dimenticarono, ed io corsi il rischio di scivolare per terra. Fu il mio primo vagito a richiamare le arpie.
“E nata” brava, brava si complimentarono con lei per non averle distolte dai loro pettegolezzi. Mia madre batteva i denti per la febbre e quando le mostrarono il risultato di tutte quelle sofferenze per poco non le venne un colpo, non mi avevano ancora pulita del tutto, lo spettacolo doveva essere devastante.
Un rospo, tutto nero, con tanta peluria da far invidia a King Kong, e una grossa voglia sul collo, una fragola pronta per essere colta.
Mio padre era in sala d’attesa. Tutto da manuale, tranne che per il fatto che fu ugualmente contento anche se ero femmina e in questo devo ringraziare le sue origini russe.
Mi portarono a casa, avvolta in cento pannolini e con la testa piena delle raccomandazioni del pediatra, che mia madre si guardò bene dal seguire.
Ero una belva affamata. Marcellina non faceva in tempo a nascondere i capezzoli turgidi resi porosi dalla fuoriuscita di latte, che aveva in abbondanza, che subito io richiedevo la poppata. Divoravo in continuazione, o forse mi piaceva ciucciare, giorno e notte. Mia madre assolveva al suo compito con grande pazienza, ed in questo l’invidio perché ho avuto modo di osservarla anche con mia figlia, nel periodo dell’abbandono. L’unica differenza è che mia figlia per forza di cose fu svezzata con il biberon, ma l’impegno fu uguale e anche il senso del dovere.
Quando più tardi lessi Winnicot, l’unico pedagogo che sia riuscita a digerire credo che io per lui sarei stata l’unica eccezione che non conferma la regola.
Per Winnicot i neonati piangono per sette motivi,e la madre riesce a distinguere dal pianto la causa: fame, sonno, malessere, desiderio di essere cambiati……….,io non piangevo quasi mai e sempre allo stesso modo, uno strillo acuto isterico. Questo perché mia madre riusciva a prevenire tutti i miei desideri.
Era fatta così, sin dall’inizio non mi diede modo di esprimermi, e non mi posso neanche incazzare poiché questo suo asfissiante senso del dovere, lei lo avrebbe definito “Amore”. Comunque sia io ne avevo bisogno, lei era il mio centro, l’unico punto di riferimento affidabile, se lei non c’era e veniva a mancare il mio punto d’orientamento,allora si che erano guai, diventavo cianotica per la rabbia. Ma questo accadde poche volte. Marcellina faceva sempre il possibile per evitarmi simili frustrazioni. Mi si era dedicata anima e corpo. Forse è per questo “troppo” che in seguito quando è nata mia figlia, ho obbedito all’ impulso di fuggire. Non volevo cadere in trappola, divenire la vittima consenziente di un altro essere che si sarebbe impossessato delle mie giornate dandomi in cambio solo la sua dipendenza egoista. Le conseguenze sono state catastrofiche per la mia fragile psiche, mi sentivo un mostro e nessuno poteva aiutarmi. Mentre tutti i manuali, parlavano della maternità come dell’esperienza più bella per qualsiasi donna, io fuggivo dalla stessa, evitavo il contatto con mia figlia convincendomi che era meglio così per entrambe. Ancora non era stato scritto il libro “Lieto evento”, e le protagoniste Barbara e Lea non erano ancora in embrione nella mente di Eliette Abécassis, l ‘autore. Leggerlo mi avrebbe aiutata a non sentirmi così diversa, apparentemente ero una donna libera,
ma nell’intimo ero completamente schiava dei miei sensi di colpa.
Comunque sia “Abnegazione” è un termine che non è mai entrato nel mio vocabolario.
Incontro con Sofia la Russa
Cercare di capire la personalità di una donna nel suo continuo mutamento durante il passare degli anni e il susseguirsi degli eventi che la coinvolgono è un compito di soluzione ardua, soprattutto quando la persona in questione è vissuta in un altro paese e in un altra epoca.
Nonostante ciò ho voluto iniziare questo viaggio alla ricerca di luoghi e persone, cercando di dare un ordine logico agli eventi che hanno scandito la vita di Sofia, la mia lontana parente russa, spinta da una forza magnetica, che nulla ha a che vedere con tutto il resto delle mie esperienze. Un bisbiglio che mi ha accarezzato imperioso i timpani per avvisarmi che solo riuscendo a penetrare nella mente e nel cuore di Sofia, la mia ava, vissuta nel diciannovesimo secolo, sarei riuscita a capire il mio cuore e la mia mente, e quindi giungere al mio sé.
Avevo sentito parlare di Sofia la Russa da mia madre che a sua volta ne aveva sentito parlare da Olivia, la nonna paterna.
Di sicuro questa mia lontana parente doveva essere stata una figura a dir poco originale, una di quelle figure che non riconoscono potere al tempo e quindi, benché vissuta nel diciannovesimo secolo, nulla aveva da invidiare ad una donna d’oggi, a cui anzi potrebbe fare da esempio per il suo coraggio.
Ero sempre stata attratta dalla cultura e civiltà russa, a cui sentivo in qualche modo di dovere qualcosa del mio modo di essere. Quando a scuola ci chiesero di fare una ricerca sugli usi e costumi di un altro popolo scelsi naturalmente l’ Unione Sovietica,
e non me ne sono mai pentita.
Un album prezioso
Come ho già detto la mia curiosità nei confronti della figura di Sofia la Russa, questa mia parente leggendaria, era nata ai tempi delle medie, quando la mia insegnante d’italiano, aveva affidato a tutta la classe una ricerca a tema libero.
Marcellina, vista l’intensità del mio desiderio di fare un buon lavoro e dato l’argomento da me prescelto, “i frutti amati dal popolo russo”, aveva deciso di aiutarmi. Scelto un momento in cui eravamo sole, mio padre si era recato dalla vicina per sistemarle un elettrodomestico, da un nascondiglio aveva fatto saltar fuori – la sorpresa -. Poi, dopo aver chiuso la porta che dava sul ballatoio, immagino per non offrire la possibilità a presenze indiscrete di infastidirci, mi aveva preso con l’unica mano libera per un braccio e costretta a sedermi sul divano accanto a lei.
Era tipico di Marcellina non dare valore alle cose, agli oggetti voleva bene, sì ma a modo suo, il che vuol dire che tutto doveva vivere e palpitare, e la vita per lei era sinonimo di vivacità e possibilmente caos. Benché ad un osservatore estraneo potesse sembrare negligente, mia madre a conoscerla bene, credeva nel suo metodo e soprattutto non amava intromissione. In casa nostra potevamo scordarci quei soprammobili, o orpelli, messi in ordine e in bella mostra sulle superfici dal baluginio anonimo. Il famoso album, ad esempio, quello che si rivelò esser documento di grande importanza, era sempre stato alla mercé di chi era alla ricerca di un pezzetto di carta per pasticciare. Era un album dalla copertina robusta di un colore marrone un po’ appannato, l’aspetto anonimo di chi è stato trascurato, e i fogli interni erano di una carta dalla trama spessa.
Alle foto, si alternavano fogli vuoti, ancora più ingialliti, e, io, che per un certo periodo mi ero creduta Giotto in miniatura, forse anche un po’ incompreso, quando ero colta dal desiderio di disegnare, ci avevo pasticciato su con le matite appuntite per poi, insoddisfatta dal risultato per lo più mediocre, strapparli senza pietà.
Ho amato mia madre, confesso però che per un certo periodo provai un gran fastidio per questa sua sciatteria. Che poi il mio era un giudizio superficiale, poiché mia madre non era trascurata, ma democratica verso gli oggetti ,così come lo era verso le persone. Per lei tutto e tutti avevano valore.
Il valore era quello intrinseco a cui aggettivi come ricco o bello, ricercato, snob, povero o misero, non erano che un aggiunta di poca importanza.
Solo in cucina, era riuscita a creare un minimo di gerarchia, tra gli utensili, gli ingredienti, le spezie, e naturalmente la frutta, poiché tutto ciò le serviva per creare le sue fantasiose ricette, che a loro volta servivano per renderci felici.
Ma tornando al mio album, quando le accennai della ricerca per la scuola, e dopo avermi ascoltata attentamente, a mia madre si disegnò un punto esclamativo sulle labbra. Eureka!!, La lampadina le si era accesa. Fece solo passare qualche giorno senza tornare sull’argomento. ed ecco che un pomeriggio, dopo aver fatto merenda, mi chiese di chiudere la porta che dava sul ballatoio, e mi fece sedere accanto a lei. In mano teneva l’album dalla copertina in pelle marrone. Lo stesso album, che aveva vagato da sempre da un mobile all’altro, quasi senza meta. Ma ora, non so per qual miracolo o forse a causa della suggestione, sembrava avere assunto un aspetto diverso, più curato, come se realmente fosse stato tenuto al sicuro in un cassetto. Marcellina prese a sfogliarlo lentamente, e sin dalla prima foto che lei mi mostrò con religiosa attenzione, pensai che mai avevo visto immagini più belle. Il bianco e il nero si erano tramutati in unico color seppia e l’espressione dei volti sorridenti ripresi in varie pose, avevano un che di ingenuo, che non ho più ritrovato nelle facce dall’aria disincantata di chi al giorno d’oggi posa anche solo per foto amatoriali.
Guardavo il lento susseguirsi delle pagine e nel mentre ascoltavo la voce di mia madre che fattasi sussurro aveva iniziato a raccontarmi una storia che all’inizio non mi parve vera. Come mai sino ad allora non ne era stato fatto cenno. Come per le mestruazioni, Marcellina aveva preferito tacere, per una sorta di pudore che mi era incomprensibile, soprattutto visto il mio carattere poco portato al compromesso. Con gli anni avrei capito il motivo della scelta di tacere sull’esistenza di Sofia, e su parte degli avi,alcune erano figure scomode, e soprattutto Sofia per quanto l’avesse ammirata, mia madre così tradizionalista negli affetti non era riuscita a capirne il desiderio di libertà, una parola che suonava blasfema soprattutto se a sentirne l’esigenza era una donna.
Avevo scoperto un nuovo mondo, a cui di riflesso anch’io appartenevo. Ma ancora non potevo immaginare che da quel momento in poi, un fantasma, un’ ossessione sarebbe entrata nella mia vita piuttosto comune, per renderla unica. Sofia la Russa, la mia antica e lontana parente da parte di padre, osservandomi dalle pagine ingiallite dell’album, aveva deciso di prendermi sotto la sua guida, e rendermi quella che sono, unica e imprevedibile, anche se all’apparenza simile a migliaia di altre donne appartenenti alla mia generazione.
Da quel giorno, l’album dalla copertina marrone divenne per me una presenza sacra, tanto che lo sistemai avvolto in una sciarpa di seta, con la sensazione di doverlo curare, accarezzando in modo particolare, come fossero ali spezzate di colomba, i fogli che avevo sin ad allora pasticciato.
Adolescenza
Da fragola che ero
La Password della mia adolescenza fu “speranza” il login “delusione 60’”
Adolescenza è quel periodo difficile in cui non si è né pesce né carne, ma a pensarci bene uno dei periodi più belli e misteriosi in cui si scopre la capacità di pensare in modo astratto, andando oltre la realtà. Si riflette su se stessi su quello che si è e su quello che si potrebbe divenire, io invece mi chiedevo chi avrei potuto essere se nata in un contesto diverso.
Improvvisamente mi ero accorta che la mia fisionomia stava cambiando, e la conseguenza visibile era l’abbandono del mio corpo infantile. Mi si erano ingrossati i capezzoli ed i seni erano diventati due piccole pere appuntite. Il viso si era riempito di brufoli che mi causavano forti complessi e che mia madre cercava di curare con strane poltiglie, puzzolenti quanto inefficaci. Le prime tempeste ormonali avevano iniziato a farsi sentire, soprattutto quando Eric un mio compagno di giochi mi aveva proposto certi grattini sulla schiena
Mentre la realtà quotidiana mi ruotava attorno confidenziale e rassicurante come sempre io mi sentivo sempre più strana e prossima ad una trasmutazione.
Sino ad allora mi ero paragonata ad una fragola, per rifarmi al gioco iniziato con mia madre, la quale per prima mi aveva paragonato alla polpa dolce e succosa del rosso frutto. Purtroppo con mia sorpresa e dispiacere mi stavo trasformando, ma in cosa e quale sarebbe stato il risultato definitivo ancora non potevo saperlo.
Tutti questi pensieri si rincorrevano in maniera disordinata quella mattina, erano i primi giorni d’aprile, non ero andata a scuola a causa di dolori che andavano e venivano al basso ventre. Seduta sulla mia poltroncina in cucina, il centro sociale della casa, guardavo assorta i raggi finalmente tiepidi del sole primaverile. Oltre ai raggi, dalla porta ogni tanto si affacciavano anche le vicine, per offrire il saluto quotidiano e chiedere a mamma quale bontà stesse preparando. Ora ricordo che era uno dei cari giorni della macedonia. Quando all’improvviso dovetti buttarmi a terra per il dolore, una fitta lancinante che saliva dal mezzo delle gambe per trafiggermi fino al cervello. Mi alzai a fatica per correre verso il bagno poiché sentivo del liquido viscido e caldo scorrermi lungo le cosce e sporcare i polpacci. Non avevo il coraggio di guardare cosa fosse.
Ma era sangue, c’era sangue ovunque al mio passaggio che faceva per terra una scia inconfondibile. Sembrava che fosse passato Pollicino alla ricerca della strada di casa, io cercavo mia madre perché mi rassicurasse, nessuno mi aveva preparato, nessuno mi aveva detto che tutto ciò doveva accadermi. Il silenzio, questa era stata un’altra delle scelte che aveva unito i miei contro di me, almeno questo fu il senso che diedi all’accaduto quando lo spavento mi abbandonò per lasciare spazio ad una certa stanchezza. Ero diventata donna nello spazio di un mattino, e sempre in quel mattino avevo preso una delle decisioni più importanti della mia vita. Se un giorno fossi diventata madre mai avrei scelto il silenzio e quella specie d’omertà che sentivo essere come un collante che univa gli adulti nell’impartire regole che chiamavano educazione.
Delle mie figlie sarei stata complice e saggia amica.
Quello che era un dono della natura e che segnava il passaggio da sterile giunco a fertile pianta da me fu accolto con repulsione e fastidio. Mi sentii sporca, esattamente come quando in seguito feci l’amore.
Quella sera mia madre per farmi superare il dolore mise in tavola come sorpresa uno splendido dessert con cachi.
Finalmente capii in cosa mi stavo trasformando, in un caco.
La mia vita da adolescente: un Caco!
Perché proprio un caco?
Il caco è un frutto di bell’aspetto, la forma e i colori sono perfetti;
Quando l’albero si libera dalle foglie per restar spoglio, il frutto come godendo di quest’improvvisa libertà raggiunge il massimo del suo splendore, e le sue forme ormai turgide possono ingannare sul suo grado di maturazione, spingendo soprattutto il profano a raccoglierlo.
Per portarlo alla maturazione occorrono mani amorevoli, di solito quelle del contadino che dopo averlo colto accarezzandolo delicatamente lo poggia su di un letto di paglia.
Nascosto alla vista e protetto il Caco, prendendosi il tempo necessario finisce il suo tempo di maturazione.
Dolcissimo e succoso quando maturo, il caco può essere un frutto aspro e amaro se addentato prima del tempo.
Durante tutta la mia adolescenza mi sono sentita come quel caco colto prima del tempo, addentato e poi gettato via perché aspro.
Di chi la colpa.
Colpa del viandante? Gianni
Colpa del contadino? Mia madre
Colpa del frutto? Io, Anna
Avevo solo quindici anni quando conobbi a Rimini, Gianni, il mio futuro marito.
Quei cinque anni li ho saltati, sono stati inutili e quasi non ricordo più nulla di quel periodo. Ma credo che sia solo una difesa dovuta alla rabbia.
L’adolescenza, quello che dovrebbe essere il periodo più bello, quando noi giovani esploratori ci addentriamo sul sentiero della vita, un sentiero impervio forse rischioso ma starà a noi imparare ad evitare le buche, spostare i rami che potrebbero ferirci e avanzare coraggiosi cercando di arrivare alla fine del sentiero con meno graffi possibili.
Per me non fu così perché mia madre non mi permise di scavalcare le buche, di scostare gli arbusti, di cogliere i frutti gustosi che il bosco circostante mi offriva, di andare incontro al mistero, di esplorare la foresta, trovando dentro me stessa il coraggio delle risposte.
Iniziai a lavorare in un Istituto di Ricerche di Mercato, dove ero capitata per caso. Il sabato e la domenica li passavo con Gianni, ed era raro che uscissi con le amiche giacché non ne avevo.
Gianni aveva saputo accaparrarsi la benevolenza di mia madre, anche se non era un gran partito, la sua era una famiglia modesta e questo giocò a suo favore. Fu il mio primo uomo in tutti i sensi, ma non mi sconvolse i sensi. Ogni volta, dopo, pensavo, ma è tutto qui?
Chi mi sconvolse i sensi ancora per una volta, fu Giuseppe, il responsabile dell’ ‘EDP, il reparto informatico.
Il nostro era un gioco di sguardi, di sottintesi maliziosi, che mi sconvolgevano molto più di tutte le carezze di Gianni che a volte mi davano persino fastidio.
Era l’intrigo a piacermi? Il doversi nascondere: affidai tutte le mie sensazioni ad un diario che avevo preso a scrivere e che tenevo in una scatola nascosta sotto il mio letto.
Con Giuseppe dopo un po’ mi feci più audace, lo aspettavo quando sapevo che era arrivato alla fine del suo turno e mi infilavo nell’ascensore cercando in tutti i modi di stargli accanto, per sfiorarlo e sentire l’odore di tabacco della sua pelle.
Mi emozionava. Sapeva di uomo maturo, sicuro di se. Non m’importava la sua incipiente calvizie che a mio avviso gli donava.
Mentre l’ascensore scendeva, in quei pochi secondi sognavo di baciarlo e a quel pensiero uno sfarfallio mi prendeva la bocca dello stomaco, e io uscivo dall’ascensore stordita. Non c’era altro, ma a me bastava per dare sapore alle mie giornate. Andò avanti così fino a quando mia madre dopo aver letto il diario (non l’ho mai perdonata per questo) presami in disparte mi fece la morale.
Neanche si preoccupò di nascondere come fosse venuta a sapere della mia relazione extraconiugale. Lei la definì così.
Non ricordo bene ma il succo del discorso fu – se hai un fidanzato non civetti con gli altri – se no vuol dire che lui non ti piace e allora lo lasci – ma senza fidanzato, bada bene, la tua libertà, quella di cui hai goduto sinora termina.
Mia cara bambina la nostra è una famiglia rispettabile e non sarai di certo tu a cambiare le regole.
Mi convinse che meglio di Gianni non avrei potuto avere se non delusioni. Come se all’orecchio di Giuseppe fossero arrivate quelle parole, improvvisamente lui smise di corteggiarmi. Ai suoi occhi io ero divenuta trasparente.
Rimini
Se qualcuno mi proponesse di passare un’estate a Rimini penso che ucciderei con lo sguardo l’ingenuo, l’ottuso, chiunque insomma potesse farmi una simile proposta.
Ho viaggiato, imparato a conoscere e apprezzare le bellezze della natura e quindi penso che Rimini non appartenga a questa categoria. I miei non la pensavano allo stesso modo e allora anch’io ero d’accordo. Amavo Rimini e i divertimenti che offriva a noi ragazzi.
Tutti gli anni ci ospitava una pensioncina, ricca di comodità e accoglienza famigliare.
Arturo e Ines i proprietari ci riservavano sempre le stesse due stanze attigue, il mare era vicino, con la sabbia calda che ci prosciugava l’umidità dell’inverno milanese, e poi c’erano tutti i miei amici, la compagnia degli sfigati.
Io ero la più piccola, ma non per questo la meno corteggiata, non starebbe a me dirlo ma ero graziosa, nonostante il muso che contraddistingueva la mia espressione, forse un vezzo. Portavo un costume intero, allora si usava così, blu con pallini rossi, i capelli ondulati mi coprivano il viso ed io li scostavo solo per sbirciare chi mi stava di fronte, un attimo e poi tornavo a coprirmi.
Dopo Eric nessuno mi aveva fatto sentire le farfalle nello stomaco, ma quell’estate del 1960, il jue box suonava le musiche di…arrivò Paolo a sconvolgere i miei sonni.
Sorrido al pensiero di quanto eravamo ingenui, e distanti dai giovani di oggi. Non sono passati tantissimi anni, ma sembrano millenni tanto il mondo si è capovolto, a gambe in su e a gambe in giù. Il sessantotto, con la sua rivoluzione ha capovolto valori, come un fiume in piena, travolgendo la morale, i pregiudizi, ma anche le massime, delle po’ troppo in fretta, distruggendo senza che ci fossero pronte le scelte.
Il primo amore
Il primo amore, Paolo,
Non lo udii né lo vidi arrivare. Mi invase a poco a poco, albergò in me per un momento, prima che la freccia di Cupido colpisse la mia coscienza. Prima che avessi il tempo di accorgermi della sua presenza. Prima di distinguerlo come tale, di confessarmelo.
Paolo era il nuovo acquisto della compagnia. Prima fummo amici.
Il progressivo evolversi verso l’amore avvenne senza che io lo volessi, a mia insaputa.
Cominciai a non pensare che a lui, ogni volta che la mia mente si liberava delle piccole preoccupazioni quotidiane. Lui era, anzitutto estremamente bello. Riconosco che l’aspetto fisico non sia la cosa più importante in un individuo. Ma non posso negare che mi venissero in mente per primi i suoi occhi, il suo viso, l’espressione assorta, i suoi gesti,l’eleganza delle forme. E ancora oggi succede quando penso a lui. Nessuno potrà contraddirmi l’immagine precede il pensiero, lo aspetta paziente per impossessarsene e piegarlo ai suoi voleri.
Gli occhi di Paolo erano neri, erano bellissimi.
Il suo essere emanava un certo romanticismo, molta sensibilità e sensualità. Parlava straordinariamente bene per la sua età, diceva cose appassionanti e sapeva comunicarmele. Aveva in tutti noi un auditorio che all’occasione lui sapeva catturare e convincere.
Raffinato, elegante, a volte era altezzoso ma in lui questo aspetto non mi disturbava.
Pensavo solo a lui.
Avevo l’impressione che il cuore mi stesse per scoppiare, quando lo guardavo, e più ancora quando i suoi occhi si posavano su di me , spesso con adorazione, a volte con freddezza ostentata soprattutto in presenza degli altri.
Tentavo di stabilire un codice amoroso con la più piccola scintilla delle sue iridi, con il minimo battito delle sue ciglia.
Il ritmo cardiaco aumentava anche quando lui non c’era: non appena la sua immagine invadeva la mia mente, e la voglia di vederla a ondate si insinuava nel mio corpo, se gli scrivevo una lettera che non avrei mai consegnato, o se per essere alla sua altezza leggevo uno dei libri che mi aveva consigliato.
Credo che fu con la scoperta dei battiti impazziti del cuore, queste pulsazioni così forti, carnalmente reali, che io riconobbi l’amore.
Al principio me lo negai. Mi sentivo sciocca, poiché non capivo, tutto ciò sfuggiva al mio controllo, mi sentivo nuova e smarrita. Lo scacciavo dalla mente in mille modi, percorrevo labirinti interiori, pieni di sortilegi e preghiere per seminarlo. Tornavo bambina o mi proiettavo nella mia vita adulta con aria distaccata. Si trattava né più né meno di sfuggire al presente. Lui tenace era continuamente dentro di me, un tutt’ uno con la mia persona, con tutte le mie azioni con tutte le mie parole.
Ciò che ero sembrava esistere solo per lui,essere rivolto solo a lui; quali che fossero i miei scopi apparenti, si allontanavano da me. Mi spersonalizzavo mentre da un altro lato ero investita a ogni passo da una forza sovrannaturale. Una vera ossessione, un piacere irritante ma intrigante. Una muta di primavera, forse sì. Era questo.
Chissà che fine ha fatto Paolo, ma anche Giuseppe, Alessandro e tutti gli altri uomini che mi hanno fatto provare questo batticuore.
Sono cambiati i nomi ma non le sensazioni, che ogni volta mi hanno travolta, annunciandomi l’arrivo di una nuova primavera, di un nuovo amore.
Che io ho accolto con gioia ma anche con dolore.
Ma come ho detto per me l’amore è il maraschino,il liquore più adatto per una macedonia speciale, il sale che da sapore alla pietanza. Solo i malati devono accontentarsi di pietanze insipide per sopravvivere.
Ma a Paolo devo il merito di essere stato il primo e forse per questo quello che ricordo con più precisione.
Ci avevano presentato delle amiche comuni, anzi lui era entrato nella compagnia assieme al suo amico Gianni. Sembravamo due siamesi tanto erano indivisibili e questo m’infastidiva perché Gianni non gli permetteva di stare solo con me, con una sorta di magico tempismo arrivava sempre quando Paolo stava per baciarmi.
Reggio Emilia
Non sposai Paolo ma Gianni, l’unico per cui non ho mai provato un benché minimo batticuore. E questa è un’altra storia. Ci trasferimmo a Reggio Emilia, nonostante la mia poca convinzione, nella villa di famiglia dei Manzini, dove tutto era già stato predisposto, dall‘arredamento piuttosto banale anche se pretensioso, all’organizzazione dell’andamento della casa. Era come se io non dovessi esistere, dal punto di vista della personalità adulta. Mi accorsi invece che Gianni preferiva dare spazio ai miei capricci e le ottusità di ragazza, ancora troppo giovane per fare la moglie o poter esprimere qualcosa d’intelligente.
Gianni non era cambiato rispetto ai tempi di Rimini e delle sue improvvise visite a Milano, quando io amoreggiavo con Paolo il suo migliore amico e lui fingeva di venire a trovarmi per rimettere insieme i cocci dopo ogni nostro litigio, che non so come pur essendo partito da una banalità, dopo che Gianni ci aveva messo mano, diveniva frattura insormontabile. Ammetto che Gianni era bravo nel girare le frittate a suo favore.
A Reggio mi ero fatta delle amiche, Franca, Pucci e Elisa. Tutte brave signore borghesi, tutte felicemente sposate come me, con mariti assolutamente simili a Gianni, a parte l’età e la professione.
Assistevo tranquilla allo scorrere dei giorni, certa che sarebbero stati tutti uguali, sino allo scadere del mio tempo, e non vedevo scampo e forse ancora non lo volevo. Di sicuro le lunghe conversazioni fatte con le amiche nelle sale da te dei bar più ricercati della città, non mi aiutavano a prendere coscienza del torpore in cui ero caduta. Milano era così lontana che a volte mi sembrava di averla solo sognata. La mia adorata via San Marco era una cartolina appesa alla parete, un luogo in cui ero stata tanto tempo prima.
Un giorno, in un giorno che al suo spuntare era sembrato buio come tutti quelli che gli erano preceduti da quando mi ero trasferita a Reggio, finalmente apparve la luce, eri tu che ti annunciavi, una goccia di vita scappata dal nulla. Non avendo esperienza non so di preciso come feci a capirlo che in me si stava radicando un’altra vita, ma ne ero certa. Sdraiata con gli occhi spalancati sul vuoto del mio quotidiano, un fulmine mi colpì e d’un tratto nel buio si era acceso un lampo di certezza; si tu c’eri. Esistevi. Mi si era fermato il cuore dalla gioia e dalla paura. Non sapevo cosa potevo offrirti oltre alle certezze materiali e alle incertezze delle mie giovani convinzioni.
A 22 anni non sapevo ancora chi ero e chi volevo essere. Ma tu mi venisti in aiuto, poiché da quando avvertii la tua presenza dentro di me, fui certa che sarei stata tua madre,una buona madre, e che tu fossi un maschio o una femmina, ti accoglievo nella mia vita per rendertene protagonista. Tu saresti stata la mia rivincita sul vuoto che la provincia aveva cercato di radicare nella mia anima apatica.
Fu al secondo mese che feci l’ecografia, sino allora avevo preferito non sapere quale fosse il tuo sesso, maschio o femmina che importanza poteva avere.
Mentivo a me stessa, in realtà il mio sogno era di mettere al mondo un’altra femmina. Non ero per niente d’accordo con Marcellina, che era convinta che nascere femmine fosse solo una disgrazia. Infatti, quando si sentiva, triste soleva sospirare (“Ah se fossi nata maschio).
Valeria, Marcellina, Anna e Sofia – le donne della mia vita
Per certi versi non potevo darle torto, il nostro è un mondo fabbricato su misura dagli uomini per gli uomini, e la loro dittatura è così antica che si estende persino al linguaggio. Si parla sempre al maschile, Dio è un uomo, gli eroi sono uomini, Gesù si dichiara figlio dello Spirito Santo, ma è proprio per questo che nascere donna per me finiva per rappresentare una sfida, una ricerca che aveva il fine pretenzioso e forse un po’ ingenuo di liberarmi dalle catene di secoli di schiavitù e pregiudizio.
Nascere donna voleva dire avere tante cose da intraprendere, da scoprire, diritti da esigere, doveri cui finalmente rinunciare, come quello di essere sottomessa, di essere stupida per essere accettata. Furono questi i pensieri che mi accompagnarono sin dall’inizio della gravidanza, come se con il crescere di questa nuova vita dentro di me avessero iniziato a prendere forma in me concetti che erano finiti nell’oblio. Fu allora che decisi di dedicare parte delle mie energie, senza nulla togliere a te, e del mio tempo, per fare delle ricerche sulla vita di Sofia la Russa. Dovevo solo aver pazienza, e fare le cose per benino, sapevo che nei primi tre mesi di gravidanza sarei dovuta rimanere tranquilla per permetterti di attaccarti saldamente al mio utero. Ebbi l’accortezza di non parlarne con nessuno del mio progetto, fosti tu la mia unica complice e testimone. E ne sono contenta, perché sono certa che quella nota aristocratica che ti distingue, ti è stata trasmessa da me in quel periodo o forse meglio ancora dall’essere venuta in contatto, grazie alla mia testardaggine con Sofia Krassowsky – Cittadina Russa vissuta alla corte degli Zar.
Spezzare un anello della catena che ci lega ancora ai fantasmi del passato, è questo il segreto del ciclo delle vite, ed è il motivo per cui torniamo sulla terra, anime irrequiete cercando uno spiraglio di luce nel buio che ci guida.
Sofia è stata la mia luce, lo strumento con cui ho tagliato il primo anello, e Anna Achmatova incarnò la presenza silenziosa che io imparai ad ascoltare attentamente in cerca di una via di d’uscita.
Mia madre si sposò ragazza, e ancor giovanissima mi partorì. In tutto il tempo che le ho trascorso accanto, non le ho mai visto fare qualcosa d’imprevedibile. Intendo sparire per due giorni, che ne so tingersi i capelli di un altro colore, rinnegare la monotonia dei suoi giorni, comprarsi un vestito viola, bere un bicchier di troppo, rinnegare mio padre, i vicini o me sua figlia.
Aveva sempre accettato tutto, dalla morte dei suoi genitori, avvenuta quando lei era ancora giovane, (figlia unica), – alla povertà improvvisa – mi raccontò che non aveva nemmeno i soldi per i funerali, e dovette farseli prestare da una cugina brianzola che le stava pure antipatica. Fu in quell’occasione che capì di essere stata abbandonata anche dagli amici ricchi, ignobilmente preoccupati di doverla magari aiutare.
Credo che abbia sposato Giorgio, mio padre, che allora faceva il militare nella caserma di de Angelis, vicino alla panetteria ancora proprietà della famiglia di Marcellina, un po’ perché era il ragazzo più affascinante che non avesse mai incontrato, ma soprattutto perché terrorizzata dalla solitudine. Andarono a vivere nella vecchia e malandata casa di ringhiera di via San Marco, dove su cinque piani erano raggruppate venti famiglie. Ora quella stessa casa è diventa di moda, e di famiglie ne vivono solo dieci. Allora, e sino a quando io sono stata piccola, l’anima della casa erano i bambini, ce n’erano tanti, e tutto il giorno scale e cortile diventavano nostra proprietà. Un baccano che dava gioia soprattutto se confrontato con il silenzio che fece seguito a causa del calo delle nascite e dell’’elevarsi del ceto sociale che andò ad abitarci.
L’unica eredità che Marcellina ebbe dalla famiglia fu, la paura della miseria da cui non si liberò mai più, e un senso di delusione.
A causa di questa sua fobia arrivato per me il momento di andare alle medie, invece del Parini, ritenuta una scuola per ricchi, Marcellina mi spedì alle medie di via Volta.
Io non riuscivo a vedere tutta questa povertà poiché tre volte la settimana andavamo al cinema, almeno due al ristorante e due mesi di vacanza d’estate li abbiamo sempre fatti.
Ma il trauma causatole da mio nonno, Annibale Beretta, che io per fortuna o per disgrazia non ho avuto modo di conoscere perché morto prima della mia nascita, le rimase impresso come il marchio che ho visto stampato sul sedere delle pecore in Scozia. Nonno Annibale, era nato ricco, la panetteria in piazza De Angelis apparteneva ai suoi genitori. Da ragazzo si era anche divertito ad alzarsi presto di mattino per andare al forno a cuocere il pane. Ed era bravo a far lievitare la pasta e a creare aromi meravigliosi, che uscivano da sotto le saracinesche per salutare il mattino ed i primi passanti. Ma poi scoprì il fascino del gioco e divenne accanito nel rincorrere a vuoto la fortuna. Sciupa femmine e amante delle macchine da corsa, ci mise poco a far fuori tutti i suoi guadagni,
senza preoccuparsi di chi gli stava accanto. Morì giovane seguito a breve da sua moglie, mia nonna Luisa e, lasciando Marcellina orfana.
E da ricca che era – povera in canna – .
Mio padre l’aristocratico
Giorgio mio padre
a differenza di Marcellina, si senti sempre un Re, cui mancava solo la corona.
Marcellina e Giorgio, mai due persone furono più diverse. Lui amava la musica, la solitudine degli orsi, il silenzio e l’invenzione, le passeggiate con me alla ricerca dei luoghi di Milano. Lei amava le chiacchiere, la confusione, il pianerottolo di via San Marco, il rumore dei mercati. Lei parlava in dialetto milanese, mio padre usava espressioni ricercate nel pieno rispetto della lingua italiana. Dopo aver procreato l’unica erede, s’immersero ognuno in un proprio mondo, e ad unirli fu la formalità dei gesti quotidiani.
In una cosa però facevano fronte unico: un’intesa sublime, nel modo di educarmi. Per entrambi ciò che contava era il lato esteriore, la facciata. Sapevano prestare un’attenzione estrema agli aspetti più banali dell’educazione, era tutto un – questo si fa o questo non si fa – stai seduta composta, non rispondere con la bocca piena – potrei scriverne un libro di queste cazzate.
E dico cazzate, perché l’impegno che mettevano nel cercare di inculcarmi queste regole era ammirevole, peccato che non facessero altrettanto per il mio lato spirituale, lasciando al caso tutto ciò che faceva parte della mia vita interiore, soprattutto in questo mia madre peccò moltissimo.
Ero una bambina piuttosto sensibile, piena di curiosità legate al fatto che molte cose non mi convincevano. Mi sarebbe bastato parlarne. Purtroppo ogni volta mi era risposto in maniera approssimativa, lei sorrideva e voltava la faccia da un altra parte. Tutto ciò non fece che creare in me insicurezza.
Solo di una cosa ero certa. “Per essere amati non bisogna rompere le scatole al prossimo!”
Oltre alle invenzioni mio padre amava i luoghi e Milano per lui era “il luogo” per eccellenza.
La città dov’era nato e che aveva visitato palmo a palmo. “Quando si ama, dell’oggetto amato bisogna conoscere e accettare anche i difetti” affermava seriamente mentre camminavamo mano nella mano durante le nostre passeggiate. Mi piacevano molto quelle passeggiate poiché, quando eravamo soli per le strade di Milano, mio padre mi sembrava più giovane, più sincero come sollevato da qualcosa che non gli apparteneva.
Di Milano amava i quartieri popolari, che allora non erano l’estrema periferia, ma era un mondo popolare che trovava la sua espressione lungo i Navigli, niente a che vedere con le osterie e i caffé dalle atmosfere artefatte e fatue di oggi.
C’era la Milano di porta Ticinese, e quella attorno a Piazza Sant’Ambrogio, che era meno popolare, ma la chiesa romanica dove era nato il rito ambrosiano per lui incarnava il simbolo massimo della milanesità, più ancora del Duomo.
In queste scorribande io l’accompagnavo sempre volentieri, non tanto per una devozione verso la consocenza, ma perché certa che la tappa finale era una pasticceria dove avrei potuto abbuffarmi di
meringhe, le mie paste preferite. Era un suo modo di premiare la mia attenzione.
Ma la passeggiata che amava di più era la visita al Grand Hotel et de Milan,dove secondo lui nelle sale e negli appartamenti era racchiuso l’ultimo secolo di storia milanese. Ci arrivavamo passando da Piazza San Babila, e poi via Matteotti, piazza Meda, piazza Scala e finalmente via Manzoni.
Arrivati davanti alla facciata dell’ ’Hotel papà mi metteva confidenzialmente una mano sulla spalla e stringendomi diceva”Guarda Annin, questa è la dimora milanese del bel mondo. Qui c’è stato Giuseppe Verdi. Lo sai chi è Giuseppe Verdi?, Un giorno ti farò visitare l’ appartamento che aveva scelto come sua residenza e dove è morto.
Conosceva tutti i numeri degli appartamenti, Verdi era stato ospite al n. 105, Tamara de Lempicka aveva scelto il 405, Gabriele d’Annunzio al 103 e quando mi parlava dei soggiorni di Rudolf Nureyev di Margot Fonteyn, ogni volta si commuoveva.
Non che seguisse in modo particolare il balletto, ma aveva una passione per questi due personaggi, soprattutto per Nureyev. Non gli andava giù che fosse dovuto fuggire alla sorveglianza dei funzionari sovietici per chiedere asilo politico all’Occidente. Lasciarsi sfuggire i talenti per lui era un peccato capitale, era scialacquare la ricchezza di un popolo, calpestarne l’anima.
Pur amando la Russia, a parte Krusciov, non perdonava ai suoi politici molte cose.
Un rumore come di tuoni lontani annuncia l’arrivo di un treno. A volte i ricordi ingannano i sensi, come spiegare sennò quest’odore di sabbia bagnata che avverto, mentre aspetto, qui alla stazione di Reggio il treno che mi porterà a Milano.
La gente si accalca davanti alla porta del vagone di seconda classe e si stringe, un po’ come ci stringevamo noi della compagnia degli sfigati sotto alla tettoia sulla spiaggia, mentre la pioggia offuscava l’orizzonte del mare e rendeva la situazione irreale. Fatico a seguire il filo della memoria. Cerco di non pensare a cosa possa portarmi questo nuovo giorno, cerco di rifugiarmi nel passato con la mia vita come unico giocattolo, ma il suono della voce di mia madre Anna – corri, papà sta male – si fa spazio sgomitando fra gli altrui ricordi, e nonostante gli sforzi per non farlo riemergere, il volto di mio padre mi appare portando con se tutti i momenti vissuti assieme.
Cerco di distrarmi immaginando le destinazioni dei passeggeri seduti accanto, chi li aspetterà al loro arrivo, quali storie si celano dietro i loro volti attoniti. Ma l’inquietudine rifiuta di mollare la presa e non serve ripetermi che l’incertezza fa parte della vita. Non mi è permesso tornare indietro e far finta di niente, ho sbagliato treno, ho sbagliato destinazione, vorrei tornare a prima di quella maledetta telefonata. Ormai prossimi alla fermata di Parma quelli che devono scendere spingono verso l’uscita. Fretta e spintoni, questo è ciò che ci offrono le Ferrovie dello Stato. La gente seduta sui seggiolini ribaltabili deve alzarsi in piedi, siamo in troppi, tra l’uno e l’altro passa a fatica, solo l’aria.
Ci stringevamo gli uni agli altri anche in quella buffa festa in riva al mare, ma lo facevamo per scaldarci a vicenda. Io, Paolo tutti gli amici, e Gianni che cercava di infilarsi tra noi due. Eravamo così scomodi, infreddoliti e fradici tanto che, dopo un po’, tutti cominciammo a ridere e far battute. Qui, invece ciascuno è assorto nelle proprie fissazioni, mentre il treno riprende la marcia.
Che mania la mia, di fare una macedonia usando i differenti pensieri. Un po’ di questo, un po’ di quello. Ad esempio che centra ora ricordare il giorno della mia prima comunione. Sono vestita da suorina, come tutte le altre bambine e con il crocefisso al collo mentre esco dalla chiesa di san Marco. Ero la più grande perché mia madre ci aveva messo del tempo per vincere le reticenze di mio padre, un anticlericale di quelli inossidabili….. Lui era rimasto ad aspettarmi all’uscita, non era voluto entrare in Chiesa, con un espressione di disapprovazione appiccicata sul viso, ma si era ben guardato dal farmi pesare il suo disappunto, e anzi afferrata la mia mano mi aveva sussurrato “Adesso ti meriti una bella cioccolata calda”
“ I medici gli hanno dato pochi giorni di vita, ma lui non sa niente”
La morte colpisce a caso, non si era di certo preoccupata di mia madre che senza di lui si sarebbe sentita persa, erano due cozze, erano indivisibili.
Nel poco tempo che mi divideva dal rincontralo, mi coglievano mille domande. Come mi sarei dovuta comportare al cospetto del suo stare male, distante come sempre, poco loquace e poco incline a mostrare i miei sentimenti, oppure per una volta avrei potuto confidargli quanto lo ammiravo, quanto lo amavo e quanto, sempre avevo avuto bisogno di lui.
Decisi che avrei fatto finta di nulla. Ero certa che lui sapesse. Papà era ateo e non credeva in un altro mondo o nel Paradiso, Paradiso e Inferno li aveva vissuti su questa terra e penso gli fossero bastati, così non volle il prete al capezzale.
Entrata in casa avvertii che l’atmosfera gioiosa del giorno della macedonia non sarebbe mai più tornata. Mamma se ne stava seduta accanto a lui tenendogli la mano, come se con la presa salda delle dita avesse potuto trattenerlo. Non riconobbi subito la sagoma sdraiata nel letto, mio padre si era ridotto la metà, uno scricciolo d’uomo e l’espressione smarrita di un bambino.
Se n’andò sereno, sembrava quasi che avesse aspettato solo il mio arrivo per dire “addio” alle due donne che aveva amato di più, con il suo tenero e nobile animo russo.
La gravidanza
Mentre tu nuotavi nel laghetto della placenta, al sicuro da ogni interferenza esterna, io cercai di tenerti lontana anche dalle influenze di Gianni tuo padre. So che potrebbe sembrarti egoista, ma avendo saputo che eri una femmina sentii che dovevo proteggerti da tutto ciò che avrebbe potuto intaccare la tua futura identità femminile.
Tuo padre di certo non era l’esempio più brillante o attendibile, e neppure lontanamente poteva accostarsi alle mie idee sulla tua educazione. Probabilmente iniziavi a non amarlo più, se mai l’avevo amato, e penso che sposarlo fosse stato solo parte del mio piano di fuggire da casa.
In ogni modo per tutti i nove mesi lui cercò di starmi accanto, a modo suo, e sono certa che si augurasse che tu fossi maschio.
La notizia della tua presenza si era sparsa ovunque, non mi ero accorta di conoscere gente in tutte le parti del mondo, come un tam tam la voce correva, Anna aspetta un bambino……Anna sarà madre, Grazia e Vania ed Elisa, mi asfissiavano con i loro “Stai attenta.. i primi tre mesi sono i più difficili. Mi riempirono di libri sul “Com’essere una buona madre” “IO e il mio bambino”, e non so che altro, libri che non lessi poiché convinta che gravidanza e maternità fossero un dono della natura, e quindi dovessero rimanere sotto la sua egida, senza tante minchiate e interferenze dei vari dottor Spock.
Finalmente arrivò il tanto atteso terzo mese, anche se devo ammettere che non mi ero accorta di particolari difficoltà o pericoli. Tutto era filato liscio, anche la mia fame non aveva smesso di abbandonarmi. Mi stavo gonfiando come un palloncino e iniziavo a sentirti, piccolo mollusco vorace, mentre ti gonfiavi assieme a me dentro di me.